Intervista a I Sileni
a cura di Anna Lisa Di Mezza
øTheP: Dove siete nati? Dove siete cresciuti?
IS: I Sileni nascono nel bel mezzo di un gelido inverno. È il 2 novembre, giorno dei morti. L’anno è il 1992. Il progetto, che inizialmente vede Raffaele ed Antonio alle chitarre, Andrea al basso e Mario alla batteria, prende inaspettatamente forma al termine di una Assemblea a base di sconclusionate discussioni su Erasmo da Rotterdam e una “catasta” di Peroni, tenutasi su di una panchina posizionata sul suolo di una sonnolente valle (si tratta della Valle Vitulanese, valle dell’Appennino campano situata nella parte sud-occidentale della provincia di Benevento, n.d.r.).
Partendo da posizioni differenziate ma ideologicamente convergenti sull’incedere negativo del mondo, è da quel momento che confluiremo in una struttura protofilosofica di gruppo dal sapore nichilista, e in un sistema di progettazione del suono ossessionato dall’incedere della fine, in puro stile kafkiano. In quegli anni eravamo quattro soggettività non adatte al movimento della contemporaneità (non lo siamo neanche oggi che siamo cresciuti), che guardavano alla musica come ad un sapere da non lasciare isolato in quella forma di organizzazione creativa dell’idea che, nel migliore dei casi, la riduce ad estemporaneo prurito emotivo.
Il fiume Jenga, che attraversa la parte meno visibile del paese in cui restiamo e resistiamo, è stato la nostra dimora bucolica. Lungo le sue acque abbiamo partorito tutto il possibile senza preoccuparci troppo di quanto, in quegli anni, accadeva alla musica: abbiamo assunto una distanza critica da quei fenomeni di indubbia importanza, quali il grunge o le posse, lontanissimi però da quel movimento creativo cui, pian piano, stavamo dando forma.

øTheP: Chi (o cosa) amate?
IS: Amiamo molte cose. Anzitutto la diffidenza, e non nelle forme retrive e conservatrici tipiche della contemporaneità, incentrata su modelli di semplificazione del reale spesso fuorvianti ed ideologici. Amiamo il Bar-ross, sacro luogo di ritrovo della nostra valle in cui, discutendo in progressione dei nostri progetti sonori, rimuoviamo i confini di un mondo che non consideriamo soltanto nostro, ed invogliamo le altre soggettività, anch’esse Silene, anch’esse sedute al bancone, a suonare con noi e a farlo anche per altre strade. Amiamo la Scuola di Francoforte e la Negazione insegnataci dai Maestri del sospetto cui, maldestramente, tentiamo di rendere omaggio attraverso la nostra musica. Amiamo l’idea dei Sileni come di un non-gruppo a disposizione dell’essere che si pensa a più dimensioni. Amiamo la prospettiva della musica libera da qualsiasi padrone che vanti diritti di proprietà sull’intero movimento del pensiero. Amiamo, e non come ipotesi onirica, ma come perno di un costruire in cooperazione, l’idea della spersonalizzazione radicale dei processi creativi e della rimozione di insidiosi tarli narcisisti. Infine, sia chiaro, amiamo la birra.
øTheP: Quando avete percepito per la prima volta il vostro talento creativo?
IS: Ci verrebbe da dire nel momento in cui abbiamo avvertito la struttura della realtà come Ordine Fagocitante, e quindi nell’istante stesso in cui siamo stati scaraventati a nostra insaputa sulla Terra, ma la verità è che noi Sileni non sentiamo nel profondo di noi stessi un talento creativo, almeno non in senso stretto.
Ci muove la necessità di attuare una separazione costante dalla Macchina della realtà, lasciando fuori ogni tipologia di sterile “protestantesimo”, e abbracciando una forma di resistenza difensiva, appartata, incentrata sull’assenza. Un esserci altrove che non vuole avere una connotazione romantica, ma che è il segno distintivo di un modo di produrre musica i cui unici attenti fruitori, per lungo tempo, sono stati alberi, topi, frasche, cani, vigne, pietre, gatti, api e ruscelli inquinati.

øTheP: Chi e/o cosa vi è stato di ispirazione e riferimento?
IS: Dal nostro punto di vista, una domanda del genere non può prescindere da un approccio storicistico che inquadri quel contesto, sociale e culturale, che ha determinato non soltanto noi Sileni, ma l’intera valle cui apparteniamo (anche e non solo in quanto progettualità di natura sonora) da almeno tre decenni a questa parte. Le nostre influenze e i nostri riferimenti, crediamo vadano sistemati in questo ordine di discorso, piuttosto che nella compilazione di decaloghi più o meno affascinanti.
Volgendo lo sguardo all’indietro, alla storia del nostro territorio, ma rifiutando ogni forma di reazionario passatismo, rileviamo nelle varie esperienze musicali, accademiche, associazionistiche, di piccoli spazi sociali di un non più recente passato, l’humus sul quale ha preso vita un “modo” che proverà poi a diventare realtà organizzativa ed espressiva, per chi successivamente sceglierà di produrre musica.
Certo, si tratta di un microcosmo culturale di scarso interesse, se non addirittura irrilevante, per chi ragiona e osserva con la lente del mainstream, e per chi si ostina a immaginarsi altrove, pur occupando la nostra stessa posizione.
Noi siamo espressione del nostro territorio, viviamo in questa valle e, limitatamente al contesto sonoro, scegliamo di raccontare una versione poco o per nulla battuta di questa storia. Storia di cui noi siamo, senza dubbio, espressione discutibile e parziale, ma dalla quale nessuno può chiamarsi fuori limitando il proprio pensiero al classico essersi fatti da sé, che l’onda lunga del berlusconismo rende sempre molto attuale.
Nessuna strutturata relazione con la musica trasferita all’esterno, nessuna possibilità compositiva nella sua fondamentale veste accademica, sarebbe stata possibile in assenza di quel nucleo formativo rappresentato dall’Accademia Musicale Sannita (fondata dal Maestro Ugo Pedicini e attiva già dagli anni 70) troppo spesso e troppo ingiustamente dimenticata, come momento sostanziale del formarsi di una coscienza musicale, per far posto a quello sterile e più o meno affascinante decalogo di cui si parlava.
I primi vagiti, approcci agli strumenti, alla possibilità di considerare la musica anche come ipotesi creativa, tanto nostri che dell’intera valle, provengono da lì, direttamente o indirettamente.
Ogni mistificazione che tenti di sviare dal percorso storico, rappresentando il territorio, nella sua componente creativa, quasi come fosse un’appendice musicale anglosassone, non solo alimenta un divertente paradosso, ma distrugge impunemente i fatti che hanno determinato la nascita di tutto quello che oggi è realtà compositiva, organizzativa, produttiva.
Entrando nello specifico, ampliando il discorso ad altre sfere d’influenza, e concentrando l’attenzione sulla piccola scena musicale, di cui tutt’ora la valle è protagonista con decine di progetti interessanti, anche questa non avrebbe potuto assumere carattere organizzativo in termini di progettualità, in assenza di un terreno che, dalla metà degli anni 80 in avanti, l’ha stimolata.
Crediamo sia doveroso ricordare progetti musicali e percorsi associativi del passato che, pur non avendo determinato in senso stretto la nascita di tutte le realtà produttive contemporanee, hanno senza alcun dubbio distribuito il foraggio ideologico-culturale e le esperienze concrete, giunte poi a cascata nella disponibilità degli attuali attori.
Parliamo di progetti come quello dei Primo Fuori Corso, attivi negli anni 80, che muovendo nel circuito dei centri sociali, ed alimentando una scena che non era dunque esclusiva del sottobosco partenopeo, possiamo sicuramente considerare il primo esperimento di gruppo, nella valle, con una produzione musicale propria.
Parliamo dei That’s all folks di Giulio Vetrone, dei suoi numerosi progetti e dell’idea di cominciare a sviluppare la musica in quanto discorso complessivo, producendola in autonomia all’interno di prime forme organizzate di studio e dando vita alle cosiddette autoproduzioni.
Parliamo di associazioni come Oltremodo, dove nascono esperienze culturali di non trascurabile rilievo, in cui prendono piede esperimenti teatrali formativi, lontani dal classicismo della recita di quartiere.
Parliamo di spazi sociali come il Garage, e dei primi concerti underground in valle.
Ma, a cosa è servito questo amarcord? Cosa significa?
Significa che in questa valle, decenni fa, si è prodotto un calco che ancora oggi, più o meno consapevolmente, circola tra le mani di chi, in questi luoghi, ha scelto di audeterminarsi per il tramite della musica e non solo.
In conclusione, anche se non abbiamo soffiato via tutta la polvere, anche se non siamo riusciti a delinearlo in maniera esaustiva, è il mondo che ci ha preceduti, la nostra principale influenza.

øTheP: Come descrivereste la vostra arte a qualcuno che non ha mai avuto occasione di ascoltare i vostri lavori?
IS: Non è facile rispondere a questa domanda. I nostri primissimi pezzi, raccolti in una demo tape alla metà degli anni 90, hanno un suono bucolico, romantico e psichedelico; vi siamo molto legati, e contiamo di riprenderli tra le mani e riarrangiarli, salvaguardando però quella vena di autentica istintività che li attraversa.
Il primo album, Sileni1, prodotto da Giulio Vetrone e I Sileni nel 2008, è un lavoro sospeso, incerto, dove non mancano momenti di inquietudine e claustrofobia. Potremmo quasi dire che lo sventramento dell’essere è la cifra che lo contraddistingue, e intendendo con tale espressione, la messa in stato di accusa dell’uomo complice della natura regressiva dell’Ordine Prevalente; totalmente inadeguato, oggetto di un infinito processo di reificazione, che reitera una condizione di profonda, glaciale solitudine senza speranza.
Rubbish, il secondo album (Karma Conspiracy Records, 2017, n.d.r.), è stato forse il nostro progetto più complesso. Si tratta di un album notturno, introspettivo, ironico e per certi aspetti rabbioso, in cui è possibile leggere tra le righe, in maniera più incisiva che nei precedenti lavori, il profondo disagio che avvisiamo nei confronti dei movimenti della realtà, all’interno dei quali, l’opera di destrutturazione delle contraddizioni viene condotta per il tramite di liriche critiche dell’esistente, da un’angolazione che vuole essere politica, ma non nel suo significato minimo, e in netta contrapposizione con le forme dominanti ed involute dello sguardo populista dei nostri tempi.
Ancora diverso il nostro ultimo lavoro, Old but Gold, in cui si concretizza e trova più puntuale definizione, quell’idea dei Sileni come di un non-gruppo a disposizione dell’essere che si pensa a più dimensioni, di cui prima dicevamo. Questo è un album che sorprenderà chi ci conosce, un album potremmo dire sghembo, un’espansione verso nuove contaminazioni, dal momento che l’intero progetto muove, piega e curva su atmosfere e registri sonori inediti per noi. Abbiamo abbandonato momentaneamente il piano espressivo tipicamente Sileno, che non abbiamo mai ridotto in codice, per accogliere l’impulso e l’ispirazione di nuove soggettività, nelle quali abbiamo ravvisato un’autentica e profonda urgenza emotiva, che non è urgenza produttiva. Ci piace definire Old but Gold un album duale, anzi doppiamente duale. Anzitutto per le liriche, scure ed introspettive, che fanno da contraltare ad un suono che solo in apparenza sembra invitare all’ottimismo. In secondo luogo per l’intreccio sonoro e viscerale di vecchi e nuovi linguaggi che, confondendosi e confluendo, diventano due aspetti dello stesso fenomeno, in apparente e meravigliosa contraddizione.
Abbiamo detto molte cose ma non siamo sicuri di essere riusciti a rispondere, realmente, alla domanda da cui siamo partiti. Allora, e per altre vie, proveremmo a raccontare al malcapitato/a la storia del Sileno. Sileno era un vecchio brutto e ubriacone, tutore del giovane dio Dioniso. Viveva nei boschi e veniva considerato molto saggio e capace persino di predire il futuro. Il re Mida era tanto ansioso di conoscerlo da mandare i suoi servitori per farlo ubriacare, e quindi catturare. Quando finalmente lo ebbe davanti a sé, il re gli chiese: “Qual è la cosa migliore per l’uomo?” Sileno rimase in silenzio. Ma di fronte alle insistenze di Mida alla fine disse ridendo: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la seconda cosa migliore per te è morire presto”.
øTheP: Come vi preparate ad una giornata di lavoro o ad un progetto? Avete un vostro rituale?
IS: Il movimento che interessa la preparazione del progetto, quanto a modalità, richiama le dinamiche di una seduta psicoanalitica, liberata da certe sue tipiche rigidità, dove non è solo l’introspezione a determinare il flusso spirituale di chi vi prende parte. Esiste una dialettica con il fuori, con l’intera struttura del mondo, la cui interpretazione passa per una accurata e non convenzionale opera di “politicizzazione”.
Le scoperte che discendono da questa avventura intorno al sé e al contesto, terminano senza dubbio in una forma classica, la canzone, la cui evidenza è il risultato dell’intero processo che interessa meno veicolare. Questa attitudine, nel tempo divenuta in un numero non trascurabile di casi, modo prevalente, amplifica una certa tendenza a riconsiderare i processi creativi utilizzando, quali strumenti privilegiati, il discorso, il ricordo, il perturbante.
Alla fonte, piccoli e incerti ruscelli che in progressione s’ingrossano, fino a creare un movimento sonoro che prende forma all’interno di un percorso che indugia sul pensare, piuttosto che sul fare musica in senso stretto. Forse, più o meno consapevolmente, continuiamo ad alimentare un equivoco di fondo, considerando il suonare un’attività largamente introspettiva, sovrapponibile alla condizione solitudinaria dello scrittore, del dubbioso metodico, dello studioso.
Stretti nella morsa di questo limbo, persistiamo nel respingere la musica in quanto momento creativo che si spegne nella serialità alienante della prova in cantina, e a considerare la trasmissione del suo significato ultimo, per il tramite dell’esibizione, il momento propizio per il dilagare di una malattia, il narcisismo, che distrugge la musica in quanto fatto collettivo.

øTheP: Qual è il vostro lavoro preferito tra quelli realizzati? Perché?
IS: Lasciamo che a decidere siano i fans della prima ora, che hanno interiorizzato con un invidiabile spirito di abnegazione l’intera nostra produzione: pietre, alberi, torrenti inquinati, gatti, api…
øTheP: Se doveste passare una giornata con qualcuno – vivo o meno che sia, chi vorreste con voi e cosa sperate di ricevere da una simile esperienza?
IS: La passeremmo con Luciano Berio, consapevoli della nostra inadeguatezza, quanto dell’essere impunemente pretenziosi. Chiederemmo al maestro d’essere utilizzati alla stregua di staffette partigiane, con uno scopo funzionale al trasferimento all’esterno del sistema che sottende alla sua idea di musica. Condividendo l’esperienza del suo profondo sapere, vorremmo poter ripetere ed imparare ad ogni angolo attraverso la sua voce, sognandola come posizione culturale dominante:
“Qualche volta ho la curiosa sensazione che i processi musicali possano essere più intelligenti degli uomini che li producono e li ascoltano, questi processi; che le cellule di questi processi musicali, come i cromosomi di un codice genetico, possano essere più intelligenti degli organismi percettivi che dovrebbero dar loro un senso e ho l’impressione che la musica mimi uno dei più incredibili processi naturali: il passaggio dalla vita inanimata alla vita animata, dalle forme molecolari alle forme organiche, da una dimensione astratta e immobile a una dimensione vitale e espressiva. La musica deve poter educare gli uomini a scoprire e creare relazioni fra dimensioni, caratteri ed elementi diversi (la musica “è tutta relativa” diceva Dante), e così facendo parla della storia dell’uomo e del suo apparato musicale con le sue vicende acustiche, sociali, intellettuali, espressive. Mi interessa la musica che crea e sviluppa relazioni fra punti molto lontani tra loro, su un percorso di trasformazione molto ampio. Chi ascolta deve rendersi conto che ci sono modi diversi di cogliere il senso di questo percorso così come ci sono modi diversi di sperimentare un incontro, sia pur passeggero, fra la vita dei comportamenti pratici e la sfera più profonda dell’individuo. La musica, insisto, non può staccarsi dai gesti, dalle tecniche, dai modi, di dire e di fare – eppure non si esaurisce con essi, e per il fatto di essere alla stesso tempo pratica e pensiero realizza un’unità che trascende, appunto, l’opposizione del sensibile e dell’intelligibile. È per questo che la musica è uno strumento prezioso e, spesso, difficile anche per chi deve solo ascoltarla”. (da Luciano Berio, Intervista sulla musica, a cura di Rossana Dalmonte, Editori Laterza, n.d.r.).

øTheP: Qual è, se l’avete, la vostra ambizione segreta?
IS: Come dicevamo all’inizio della nostra chiacchierata, noi intendiamo proporre I Sileni non come il fine, ma come il non gruppo a disposizione dell’essere che si pensa a più dimensioni, in cui ogni spirito che spenda per la contraddizione la parte migliore della propria vitalità, possa partecipare superando quella deriva individualistica che impedisce di vedere, nel progetto Musica, il centro. Il passamano dell’idea in divenire diventa modo imprescindibile per chiunque voglia abbracciare tale sistema, essendo l’idea creativa in premessa affetta da una conclamata incompletezza, che solo un’opera di filtraggio collettivo può liberare dalla sua miseria espressiva. Dissentiamo, pertanto, da quelle idee regressive di gruppo come frazione artistica autosufficiente, e da ogni possibile autarchia compositiva. Rilanciamo una visione complessiva del fare musica e chiamiamo a raccolta tutti i separati dal reale e dai suoi dogmatici dettami.
øTheP: Qual è la vostra parola preferita?
IS: Contraddizione.
I Sileni sono un non gruppoper cui I Sileni
non sono :
Raffaele Di Lorenzo,
Andrea Perrotta,
Cesare Simiele, Renato Melillo, Luigi Santillo, Mario Pirozzolo, Gianluca Pirozzolo, Antonio Tedino, Luciano Caporaso, Alessandro Salvi, Carlo De Filippo, Enrico Falbo, Mario Possemato, Filippo Buono, Alessandro Salvi, Luca Martone, Giancarlo Perrotta, Giulio Vetrone, Carmine Martone, Alessandro Pedicini, Fred, Alessandro Salvi…

Hanno detto di Rubbish e I Sileni
“Bravissimi.”
Rockerilla
“Un disco sospeso tra la notte e il deserto.”
Rumore
“Un prodotto di grande spessore.”
Music Map
“I Sileni ci regalano 41 minuti e 6 secondi di eccellenti vibrazioni.”
Rock Garage
“Rubbish si rivela un disco affascinante.”
Raw&Wild
“I Sileni amano suonare come se stessero dipingendo una tela.”
Heavymetalmaniac
“Il loro sound è caratterizzato da influenze ben precise tra cui Pink Floyd, The Cure, Nick Cave, Fugazi.”
Insane Voices Labirynth
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